IL MONTE

Appena mi sento meglio, mi inerpico sul Monte. Da qui si domina l’intera piana alluvionale del Basso Sarca, capolavoro geologico frutto dello scioglimento di antichi ghiacciai. Noi del posto la chiamiamo Busa, la Buca. Seguo le loro tracce. Ripasso con i polpastrelli le centinaia di Flabellipecten madreperlacei che affiorano dalla roccia. Sto toccando qualcosa che preesiste alla comparsa dell’uomo. Qualcosa che in origine riposava sul fondale limaccioso di un mare primordiale. Ora è roccia, roccia sedimentaria e farinosa. Passo oltre. Devio dal sentiero principale, abbandono l’uliveto per addentrarmi nel bosco di caducifoglie dove l’ombra è più fitta. Spezzo un ramo sotto il piede e un’upupa si alza in volo proprio sopra la mia testa. Il lago luccica in lontananza.

 

Poi una macchia di colore attira la mia attenzione, è un’orchidea spontanea. Ne crescono molte quassù nel biotopo. Non si fanno notare troppo. È proibito raccoglierle, così come è proibito prelevare fossili dalla fiancata del monte – anche se nulla vieta di raccoglierli da terra. Nel corso di alcuni scavi per l’allargamento del sentiero, la roccia si sbriciolò e io mi riempii le tasche di fossili intatti. Non so stimare il loro valore commerciale. Su Ebay ne ho visti di simili a prezzi ridicoli. Ad un certo punto mi trovo confusa. Non so in che direzione procedere. L’Òra mi scompiglia la frangia, è un vento tipico di qui, molto violento, comincia a soffiare alla stessa ora tutti i giorni. Nasce da uno sbalzo termico, così mi hanno spiegato tanto tempo fa.

La Polveriera, i Forti austro-ungarici che mi affascinano così tanto, i cunicoli, le grotte. Qui correva la linea del fronte, da una parte c’eravamo noi, dall’altra parte l’Italia. Finché nel 1919, nemmeno un secolo fa, diventammo ufficialmente dei vostri. La Prima Guerra Mondiale fu combattuta anche in mezzo alle rare orchidee scimmia del Brione. Nel corso degli anni i fortini sono stati illecitamente adibiti ad usi controversi. Da bambina, mia madre mi metteva in guardia con formule fiabesche. Non toccare per nessuna ragione – nemmeno con la punta della scarpa? Nemmeno con la punta della scarpa – le siringhe che potresti trovare per terra, non entrare mai nei fortini. Alla scuola di paese i miei compagni mi raccontavano delle messe nere che si tenevano in quegli antri decadenti, dei simboli misteriosi che avevano visto apparire sulla pietra. Ma erano gli anni Novanta e noi bambini eravamo pronti a credere praticamente a tutto.

 

Alcuni alberi di ulivo appartengono alla mia famiglia, quindi per proprietà transitiva sono miei. Lancio un saluto a mio nonno, perché so che è qui, da qualche parte, nella cavità di qualche tronco ritorto. È strano ma le due presenze più ricorrenti nei miei sogni sono proprio mio nonno – e Roberto Bolaño. Non ho ancora scoperto se esiste un collegamento tra i due. Di una cosa però sono sicura: non si tratta di semplici persistenze mnestiche, sono corpi eterei che entrano nei miei sogni per consegnarmi delle istruzioni.

Una combriccola chiassosa di giovani americani mi taglia la strada. Una parte di me non può fare a meno di considerare i turisti degli usurpatori. Peggio, dei profanatori. Perché la giunta comunale non stabilisce il divieto d’accesso per i non nativi?  Chi mi assicura che queste orde di barbari non sradicheranno piante rare destinandole all’estinzione, o non si porteranno via pezzi di Monte dopo averli picconati? Cosa nascondono in quei cazzo di zainetti ergonomici? Soprattutto cosa ne sanno loro di ciò che si annida quassù? Non ne hanno idea, ma io sì. E anche mio nonno. Forse anche mia madre, ma non me lo fa mai capire chiaramente. Se non fosse tanto evidente il cambiamento che subisce quando è qui, direi che non ne sa nulla. Ma poi eccola trasformarsi in un’altra persona. Una persona più antica dei suoi anni. Un animale che scivola sicuro nel suo territorio in grado di orientarsi decifrando segni che io intravedo solo parzialmente. Conosce i nomi di tutte le piante e distingue a colpo d’occhio quelle commestibili. Se per qualche ragione rimanesse bloccata quassù, saprebbe cavarsela senza problemi.

Salgo fin qui alla loro ricerca, solo che Loro non si fanno mai trovare. Ma sono abbastanza ostinata da tentare ogni volta. Loro parlano dal sottosuolo attraverso gli alberi, attraverso il fuoco morto nella roccia, è tutto quello che so e per il momento mi basta.

E’ UN PERIODO STRANO.

Di convalescenza assediata. In seguito all’attacco sferrato da un’improvvida alleanza di Forze Ostili – il Governo, che mi ha fatto perdere il lavoro e l’invisibile Armata dei Virus, che mi ha fatto contrarre contemporaneamente sinusite, mononucleosi e Cytomegalovirus – mi sento come se mi fossi faticosamente trascinata sui gomiti in un sottobosco luminoso dopo aver riportato una brutta ferita da arma da fuoco e stessi perdendo molto sangue. Come se fossi sopravvissuta a un’imboscata. C’è il sollievo di essere ancora viva e insieme il terrore di non farcela. Se resisto è unicamente grazie all’effetto ammortizzante di questo stato di semincoscienza in cui continuamente ricado. Mi abbandono all’abbraccio delle ombre e questo mi salva.

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ALCUNE COSE BELLE CHE SONO ENTRATE A FAR PARTE DELLA MIA VITA

Volevo parlarvene da tempo ma per un motivo o per l’altro non mi sentivo mai in vena di farlo. Vuoi perché i cambi di stagione mi ammazzano, vuoi perché il mio livello di espansività aveva toccato i suoi minimi storici. Purtroppo mi capita spesso di scoraggiarmi e di chiedermi in tutta onestà cosa diamine ci faccio qua sopra, che senso abbia scrivere su un blog, soprattutto mi chiedo che senso possa avere tutto questo per una persona di indole introversa. Mi sto obbligando a farlo? In un certo senso, sì. La ragione ve l’ho spiegata un numero incalcolabile di volte. Sappiate in ogni caso che perfino all’apice della mia peggiore crisi di misantropia, io ci tengo a voi, Impavidi 114 Lettori della fulgida genia di WordPress – e anche a voi, ci tengo, cari 13 di Facebook che mi (non) seguite con ammirevole discrezione, e ci tengo perfino a voi, Visitatori Anonimi, siete i benvenuti.

Comunque.

Negli ultimi mesi si sono registrati svariati episodi di generosità a vantaggio della sottoscritta (era il mio compleanno, era Natale, era un mesiversario, era quel cazzo che vi pare, ogni occasione è buona per farmi un regalo – tranne che: a San Valentino e per la Festa della Donna, due ricorrenze che non sono in nessun modo contemplate dal mio calendario). Tre quarti delle cose belle che ho ricevuto me le ha regalate lui. Vi sembrerà bizzarro, ma c’è qualcuno che da quasi 5 anni mi ama.

 

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CUFFIE BOSE SOUNDLINK. Ecco, queste bellezze provengono appunto da lui. Non sapevo nemmeno di desiderarle finché non me le ha regalate. La caratteristica più impressionante di queste cuffie wireless è la funzione Noise Cancelling, cioè la loro capacità di isolamento acustico per un’esperienza di suono letteralmente immersiva. In pratica, le metti e improvvisamente ti ritrovi sott’acqua. Con una carica vanno avanti per settimane anche se sottoposte a un utilizzo intensivo, che non è poco. In più il design Bose mi piace un casino perché è terribilmente tecnico, sono fatte di nylon rinforzato con fibra di vetro e acciaio inossidabile, in una parola: sono infrangibili – con le Bose addosso mi sento una via di mezzo tra una cyber-mistica sorda al mondo e una discendente di Jodie Foster in Contact. Naturalmente, ho tralasciato l’aspetto più performante ma mi sembra talmente ovvio: la qualità del suono è a dir poco sbalorditiva, specialmente se valutata la fascia di prezzo. Come ho già detto altrove, in breve tempo sono diventate le mie più fedeli compagne di binge-watching. (Procedo un po’ a rilento, in realtà, ma lasciatemelo dire: la seconda stagione di X-Files spacca. Ormai non posso non annoverare questa serie tra le mie preferite di sempre, sta scalando la classifica in tempi record e attualmente si trova un mezzo gradino al di sotto di Lost, cioè vicinissima al Primo Posto. Rassicuratevi: non vi parlerò di X-Files ancora per molto, mi mancano solo ahem 8 stagioni).

CANDELA DICE KARTELL FRAGRANCES. Non ero a conoscenza di questa linea di candele profumate, quindi mi ha sorpreso moltissimo riceverla. Che dire? È bellissima, interpreta plasticamente l’annoso dilemma della quadratura del cerchio e ha una profumazione indefinibile e opulenta, estremamente incisiva. L’ho accesa tutte le sere per un certo periodo. Ma adesso che è rimasto solo il fondo mi dispiace consumarla del tutto, e quindi mi limito a contemplarla e ad annusarla da spenta. Esiste un termine specialistico per designare la Paura di Dimenticare? Amnesifobia? La necessità di ricordare TUTTO, di trattenere il ricordo di ogni singolo istante vissuto, è sicuramente uno dei moventi più tenaci e drammatici della mia vita diurna. È la ragione per cui mi ostino a conservare flaconi di profumo vecchissimi – esauriti ma mai fino all’ultima goccia – perché se li scapocchio mi riportano ancora alla mente il periodo in cui li indossavo (su, da Marilyn in poi, i profumi si indossano).

DANIEL WELLINGTON SHEFFIELD 36MM. Non so bene per quale ragione abbia sentito l’impulso di comprarmelo, forse perché era in superofferta su Amazon ByVip, o forse perché certi messaggi subliminali di Instagram e Pinterest vanno più a fondo di altri (nessuno uscirà indenne dal panopticon di Instagram). Non lo so. Il mistero si infittisce se consideriamo poi che ho comprato la versione con cornice in oro rosato. O-ro-ro-sa-to, capite? Mmh. Be’, comunque è elegantissimo, fin troppo, forse. È una specie di gioiello che in più ti dice l’ora anche se io in modo automatico guardo comunque sul telefono. Mettiamola così, è un incentivo di tutto rispetto per riattivare una gestualità ormai in disuso. Quella che consiste nel compiere una lieve torsione del polso per mettere in luce il quadrante e un paio di lancette meccaniche.

IPHONE 7. Regalo di compleanno dei miei evaso in differita. Mia madre, in particolare, da anni si cala ciclicamente nei panni della subdola tentatrice: Gioia, se lo vuoi, la mamma te lo compra. E io, ectoplasma irrorato all’improvviso da litri e litri di sangue, vacillavo per un secondo ma poi rispondevo Naaah, l’iPhone è roba da teenager smanettoni, poi costa troppo. La verità è che l’iPhone così come l’abbiamo conosciuto negli ultimi anni non mi ha mai detto un granché. Tutti quei soldi li avrei sborsati solo per il Dispositivo Tecnologico Perfetto e secondo i miei standard estetici e funzionali l’iPhone 5 era perfettibile, il 6 poteva quasi andare ma aveva ancora le profilature d’acciaio a contrasto. Quindi, nay. Nel frattempo tuttavia il mio amatissimo Samsung Galaxy sII Plus, dopo un tre anni di piena efficienza operativa (mai sottovalutare Android) cominciava a mostrare i primi segni di cedimento a livello di software, praticamente mi stava rantolando in mano. E siccome lo smartphone mi è indispensabile sul lavoro, ho iniziato a sentirmi in ansia ogni volta che ero di turno. Poi, un bel giorno, nel corso di uno dei miei tour perlustrativi da Unieuro/Euronics/Trony/Expert ecc. – credo di essermeli fatti tutti – in cerca di promozioni utili, ho cominciato ad occhieggiare con crescente insistenza l’iPhone 7, che se ne stava lì, sotto un’urna di cristallo come Biancaneve. Dopo ripetute ricerche online sono arrivata alla conclusione che avevo trovato la perfezione in forma di smartphone. E mi sono convinta che anche solo per il design valeva tutti quei cazzo di soldi. Rivedo la scena, io che con la testa ciondoloni mi tormento Non so, non so – e accanto a me i miei che esclamano Ma sì, ma sì, a parte il Momo sei la nostra unica figlia. A quel punto ho aperto a fessura un occhio, e quell’occhio brillava di una luce sinistra.

Eccolo qui, lo sto guardando proprio in questo momento. E niente, sembra fatto apposta per gratificare il mio apparato percettivo. E’ integralmente nero e quando dico integralmente nero intendo in ogni sua singola componente, e il case è opaco – ripeto opaco, è sottile, ergonomico e dannatamente solido. E’ il monolite di Kubrik. E’ l’oggetto più somigliante a un manufatto alieno che mi sia capitato di vedere in giro.

RICAPITOLIAMO

Due settimane di febbricola dovuta alla sinusite, primo ciclo di antibiotico completato senza successo, secondo ciclo da iniziare sperando ragionevolmente di guarire, ansia perenne. I voucher abrogati, il futuro sempre più nuvoloso, anzi già temporalesco, la primavera incollata ai vetri.

Passo le giornate a giocherellare con l’iPhone fotografando a caso e condividendo tutto sui social. Guardo film, leggo – se gli occhi non bruciano troppo, se la testa non è troppo in disordine.

In generale mi sento debole e un po’ sperduta su questo pianeta. Sento addosso tutta la pressione della futilità e dell’effimero che mi circonda – che mi sostanzia, che mi danneggia, che mi euforizza – eppure non riesco a concentrarmi su cose più importanti. Forse non voglio farlo, tutto qui. Voglio affogare nell’inessenziale, oppure no, fare semplicemente il morto a galla in questo bacino artificiale di banalità chiassose e febbrili. Insomma: non ho voglia di pensare a niente di preciso, voglio solo che corpo e mente ritrovino al più presto il loro assetto normale. 

A volte avverto la necessità di lasciar andare le cose per conto loro, di abbandonarmi per un po’ alla regia occulta degli eventi senza muovere un dito nel tentativo di controllarli o di volgerli a mio favore (non ci sono mai riuscita).

L’intelligenza degli eventi è tanto superiore alla nostra.

Lasciamo che si esprimano.

Poi forse qualcosa accadrà.

THE TRUTH IS OUT THERE

Ok, basta farfugliamenti esistenziali. No spoiler.

La cosa bella di quando si è malati è che si può stare per giorni interi sotto il piumone beatamente incuranti del prossimo (perché è il prossimo in teoria che dovrebbe occuparsi di noi) senza inutili sensi di colpa.  Ho acceso il proiettore 2 giorni fa e se mi è capitato di spegnerlo è stato solo per evitare che prendesse fuoco per surriscaldamento, e per andare al lavoro (sì, con la febbre, succede, sapete).

Comunque, tra un Fluimucil e una Vivin C, e tra una crisi letargica e l’altra, sto finendo di vedere la prima stagione di X-Files. Ebbene sì.

Finalmente sto associando un immaginario coerente a quella sigla assurda sputtanata ovunque.

Ora, affrontiamo un secondo la questione Serie TV Cult Anni Novanta. Perché se è molto facile schierarsi dalla parte dell’agente Dale Cooper, un gesto pressoché naturale per qualsiasi individuo filmicamente svezzato, infinitamente più complesso risulta esprimere il proprio apprezzamento per l’agente Fox “Spooky” Mulder.

Sappiate che io gli voglio un casino di bene proprio perché è così sfigato.

(Per la cronaca: sua sorella è sparita misteriosamente quando lui era solo un ragazzino trasformandolo in un condotto di forze sconosciute – sentiva le voci! Le sente ancora? – e traumatizzandolo al punto tale da farne in età adulta un workaholic dedito all’archivio compulsivo e all’occasionale riapertura di casi irrisolti e inspiegabili – gli X-files! – nonché un contributor sotto pseudonimo di testate specializzate in occultismo. – Pensavo che nessuno ci avesse fatto caso. – C’è sempre qualcuno che ci fa caso.)

Che ci vuole ad amare Twin Peaks? (Lo amiamo tutti!) C’è lo zampino autoriale di Lynch, almeno nella prima stagione, c’è la colonna sonora di Angelo Badalamenti che abbiamo imparato ad amare fin dalla più tenera età grazie a una qualsiasi compilation newage (il Twin Peaks Theme c’era sempre, sempre!), c’è l’alter ego lynchiano per antonomasia Kyle MacLachlan (Dune, Velluto Blu, you know), ci sono i dialoghi e i frame enigmatici da decriptare (sarà che abbiamo visto Mulholland Drive troppe volte ma la naiveté aurorale di Lynch non ce la beviamo), il misticismo, l’amore impossibile tra Cooper e Audrey (un personaggio orribilmente deturpato/normalizzato nella seconda stagione), il caffè nero, la meditazione a testa in giù e i report su nastro magnetico di Cooper (Diaaane…). Insomma, è troppo facile, ammettiamolo.

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Ma l’agente Mulder, da che mondo è mondo, chi se lo fila?  La dottoressa Gruber ehm Scully non vale. Lei è cotta fin dalla prima proiezione di diapositive cui Mulder l’ha sottoposta nel suo ufficio-ripostiglio sotterraneo ma ancora non lo sa.

Insomma, chi?

Ecco. Ecco perché io voglio credere (in Mulder).

+

Che poi, chissà per quale ragione, io sono cresciuta con la percezione involontaria di due agenti dell’FBI vecchi e stanchi. Cioè, X-Files mi è sempre sembrato un telefilm per gente attempata desiderosa di immedesimarsi in protagonisti altrettanto attempati. Invece, incredibile!, Mulder&Scully sono giovani! Lui ha 33 anni, lei forse qualcuno in meno: praticamente siamo coetanei. Sono ancora sotto shock. (Sto anche riflettendo sul fatto che agli occhi di una bambina di 6 anni io appaio come una donna attempata vecchia e stanca.)

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La prima stagione lascia un po’ spiazzati. Risente moltissimo dell’incertezza del futuro, del suo stesso futuro, a livello di produzione e di scrittura. È concepita come una lunga, a tratti estenuante, teoria di episodi autoconclusivi. A me ricorda tantissimo certe raccolte di racconti di Stephen King. Le atmosfere sono molto simili. Si affonda con piacere nello stereotipo di genere, in un montaggio perfetto di cliché narrativi e cinematografici, per poi lasciarsi catturare da un dettaglio infinitesimale e del tutto inaspettato, un punctum, un vertice di scoordinazione assolutamente violento e fatale che rimescola tutte le carte in tavola e ti intrippa fino alla fine dei tempi. Può nascondersi nella battuta di un dialogo, un termine tecnico che non ti aspettavi, in un elemento d’ambiente, in un capo d’abbigliamento, persino. Insomma, il punctum è lì e ti precede da sempre e arriva sempre il momento in cui ti si rivela e tu decidi così di continuare la visione perché ti senti afferrato impigliato posseduto da quella rivelazione di cui non sospettavi minimamente l’esistenza. Come nei racconti di King tutto torna eppure niente torna o torna in maniera ambigua e l’ambiguità non riguarda mai ciò che ti aspetti ma sempre qualcos’altro (sto un tantino esagerando, ok). 

Non so nulla della seconda stagione, non spoileratemela, please. Forse sarà un’altra raccolta di racconti, o forse, questa volta, a fronte del successo ottenuto, prenderà – avrà preso? i tempi verbali si complicano maledettamente parlando di una prospettiva futura realizzatasi in un passato che sarebbe stato il mio presente del futuro – la forma di un romanzo, io mi godo l’incertezza sotto le coperte, appallottolando un kleenex dopo l’altro e sorbendo tisane dai nomi significativi (“Gioia di vita”).

Mi aggiro per la stanza

sollevando appena i piedi. È più come transitare lungo il perimetro di un pensiero, avendo cura di non sfiorarlo. Su ogni cosa aleggia una frase incompleta. Una frase difettosa incapace di concludersi. La osservo sventolare dal soffitto come un lenzuolo trasparente. 

Questo piano è senza finestre: è una camera o un cubicolo oscuro, adorno soltanto di una tela tesa e “diversificata da pieghe”, come un derma messo a nudo. (Deleuze) 

Il margine non è pacificato, il centro è sotto assedio, si scinde. È una cellula in mitosi. La proliferazione come fuga, come nascondiglio. 

Non ho argomenti sufficientemente validi da scalfire il nulla che mi perseguita come un dio innamorato. Non ho la forza di stringere un’alleanza con l’assenza. La vita è solo uno spessore delle parole, un’ombra gettata. 

Ieri pomeriggio per un attimo ho sentito l’impulso di accendere la tv. Mi sono controllata. È inutile scappare nelle immagini.

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C’erano molti modi per descrivere quella sensazione. Le definizioni si sprecavano.

Astenia. Tristezza acuta. Derealizzazione. Weltangst. Poteva sempre inventarsene di nuove. 

Quando ne parlava, quando era forzata a parlarne, si lasciava soccorrere da tropi fantascientifici. Parlava di rapimenti alieni, di viaggi extracorporei – e all’improvviso si sentiva al sicuro. Se sul suo volto baluginava l’accenno di un sorriso, i suoi interlocutori occasionali, dopo un iniziale sconcerto, scoppiavano a ridere. Erano risate liberatorie. Erano risate che ristabilivano l’ordine. Risate che, lo si capiva benissimo, credevano incrollabilmente nel regolare succedersi delle stagioni e nell’avvicendamento di giorno e notte. Dicevano, Niente di grave. E ammiccavano. 

Lei invece non ci credeva sempre, non incrollabilmente, all’avvicendarsi di luce e buio. A volte la luce durava un attimo di troppo. Oppure la notte non se ne andava mai. Intuiva che le cose potevano sempre andare diversamente da come ci si aspettava. Le leggi naturali non le sembravano così affidabili, dopotutto. L’ordine delle cose era troppo vulnerabile.

OUT OF THE BLUE

Tutto il giorno incollata a Whatsapp per questioni di lavoro, e anziché incarognirmi come al solito, provare una profonda gratitudine nei confronti della ragazza nuova che mi chiede questo e quello, perché così mi impedisce di pensare al mio piccolo scomparso in attesa dell’autopsia. Come se l’autopsia potesse spiegare qualcosa di essenziale. Non spiegherà mai il perché della scomparsa, né come imparare ad accettarla.

È morto senza preavviso, il mio Blu. Non aveva nemmeno un anno. Viveva in casa, protetto, viziato. Dieci giorni fa sono stata in Trentino e stava benissimo. Mi infilava nelle ciabatte tutti gli elastici per capelli che trovava in giro, ci infilava foglie di lattuga sbrindellate, maccheroni scivolati fuori dalla pentola. Mi faceva tanto ridere. Era bellissimo. E adesso non c’è più.

Lo so che era solo un gattino, ma gli volevo bene, e non riesco a darmi pace.

Un anno fa, nel mese sbagliato, moriva la mia gatta, May, una persiana tartarugata di 16 anni. Con i due nuovi arrivi pensavamo di poterci ritenere al sicuro per almeno altri 10 anni come minimo. E invece.

Adesso penso che la lettera M sia di buon auspicio per un gatto, che lo protegga. May, Momo – e Blu. Dovevo scegliere un altro nome.

QUESTIONE DI FONT

L’Accademia della Crusca ha decretato che in ambito informatico è preferibile l’uso del maschile, perciò noi ci adeguiamo.

Dunque, io di norma seleziono il font con cui scrivere in base all’umore del momento – con una netta predilezione per i caratteri lineari, i cosiddetti sans serif. Chiaro, perché fanno tanto Bauhaus Costruttivismo etc. – ma anche perché in definitiva sono i più leggibili, e la videoscrittura stanca maledettamente gli occhi.

Se mi sento ironica e ottimista, il mio stile preferito è sicuramente il Trebuchet MS: nato & pensato appositamente per la grafica digitale, è – tadaan – quello che ho scelto per il blog. (Tra l’altro, sottolineiamolo, ha il pregio di sciogliere magnificamente il tipico logogramma della e commerciale in un limpido et latino – adoro questa cosa ♥). Quando invece mi sento depressa o particolarmente spartana o più semplicemente mi struggo d’invidia per la sobria razionalità maschile e voglio sentirmi in grado di riprodurla, scelgo l’HelveticaTra quelli con le grazie, devozione assoluta per il Baskerville delle pagine Adelphi: per me l’ipostasi dello Stile. Per le comunicazioni più formali, invece, la scelta cade (quasi) sempre sul Times New Roman, il non plus ultra del politically correct, ma pur sempre elegante a modo suo. Quando sono di turno al choconegozio e mi trasformo in un’impersonale interfaccia messa a disposizione della clientela per interagire con la merce, io sento di parlare in Times. Non ha alcun senso, ma – credetemi – è così.

A volte, sbocconcellando qualcosa, mi perdo a studiare i font dei prodotti che ho sottomano. Mi diverto a identificarli. Lo fate anche voi? Che so, a occhio e croce, la Byredo deve aver optato per una specie di Avenir modificato ad hocL’Avenir, be’, lo sapete, è tipo l’aggiornamento contemporaneo di quel classicone del Futura (lo dice il nome stesso), il font più modernista di sempre, quello dell’infografica ferroviaria ecc.

Comunque – bah. Non mi ricordo più di cosa volevo parlarvi.

Lo sapevate che il primo prodotto ad essere confezionato in senso moderno è stato il sapone solido?

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Non a caso, gran parte dell’avanguardia estetica in fatto di packaging è oggi appannaggio delle linee cosmetiche. Con qualche anacronismo ben studiato, come nel caso dell’Acqua alle rose della Manetti&Roberts, aderente fino alla morte a un’iconografia che potremmo banalmente definire retrò, se non fosse per il flacone di plastica che si limita a simulare quello originario di vetro. Il layout tuttavia è parecchio figo. Come quello del tè Twinings, è concepito come il frontespizio di un libro. Molti prodotti commercializzati nella prima metà del XIX secolo, sfruttavano per la realizzazione del packaging la stessa filiera della stampa editoriale, ecco perché conservano un aspetto, diciamo così, librescoChe cosa carina.

TIMING IS OVERRATED.*

Ecco perché, a febbraio inoltrato, ho deciso di propinarvi l’ennesimo post dedicato ai cosiddetti Buoni Propositi Annuali.

Il rituale consolidato negli anni prevedeva che ogni gennaio taccuini, post-it, cornici e sfondi desktop si costipassero a rotazione di un brulichio di formulette analgesiche e di slogan automotivanti estrapolati dalle fonti più bizzarre – se anche voi soffrite di insicurezza cronica, sapete di cosa parlo – il solito vecchio refrain dal sapore squisitamente post-adolescenziale: quest’anno prova questo, abbandona quello, lima lì, scartavetra là, cerca di essere più ______, cerca di essere meno _____ – il tutto riassumibile in un unico monito: CAMBIA. Solo che poi non cambiava mai niente. Nella fattispecie io, io mica cambiavo, mi illudevo forse di cambiare, ma le mie erano solo estemporanee riconfigurazioni di superficie votate al nulla, cioè all’eterno ritorno dell’identico, al puntuale riconsolidamento dell’Abitudine, che tutto appiana con l’eterea levità di un rullo compressore.

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Quest’anno no.

Quest’anno mi sono riproposta un’unica cosa: Zero Buoni Propositi.

Questa per me dovrebbe essere l’annata anti-propositiva per eccellenza, l’annata dell’if-you-don’t-like-it-you-can-get-the-fuck-out-of-my-house, per dirla con Christopher Wool.

Insomma, l’anno del NON – del NON-essere, del NON-diventare.

Quest’anno, mi sono detta il mese scorso, non stimolerò il cambiamento, lo saboterò, porcaputtana.

+

In un periodo di recuperi nostalgici come quello attualmente in corso, mi capita sempre più spesso di ripensare alla mia infanzia. Niente esisteva ancora ma io c’ero tutta intera, aperta a qualunque divenire e senza l’affanno di dover corrispondere a un qualche rigido progetto identitario codificato sulla base dei più svariati condizionamenti socio-ambientali, come poi accade in genere dall’adolescenza in su.

Ero e basta.

Adesso sono, sì, ma con estrema fatica e mai, mai in modo davvero convincente.

Negli anni sento di aver abbattuto molte autorità esterne, eppure non riesco ancora a scardinare la dittatura interiore di questa cazzo di vocina insinuante (che un giorno identificherò, potete starne certi) che tenta in continuazione di delegittimarmi e di spingermi fuori pista.

*Come titolista non ho alcun futuro, lo so. Questi titoli anglofoni d’accatto sono di un cattivo gusto orripilante. Ma non è colpa mia se quando cerco un titolo mi si occlude la mente e vengo inghiottita da un buco nero (che forse è solo un punto fermo particolarmente grosso, non so). Comunque i paratesti sono troppo problematici per me, non ce la posso fare.

JUVENILIA #3 THANK YOU, MARIO

Mi riuscì una volta sola.

Di affrontare Bowser, – vi prego, ditemi che sapete chi è Bowser – il vero BOWSER, faccia a faccia, di sconfiggerlo e di trarre in salvo la ieratica Peach, principessa del popolo fungicefalico dei Toad.

Avrò avuto otto-nove anni, e mi lasciavo allegramente alle spalle una scia multicolore di cadaveri, centinaia, che dico, migliaia di Goomba e di Koopa Troopa spappolati o inceneriti in giro per il Regno dei Funghi, in un’avventura che aveva comportato l’attraversamento di otto mondi.

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Capitò quel pomeriggio, dopo Bim Bum Bam. Io e Jessica con la J di Jurassic Park, che all’epoca ancora si fregiava del titolo di Migliore Amica e che di lì a un paio d’anni, inspiegabilmente, sarebbe passata al lato oscuro della forza: tempo due anni e mi avrebbe tradito/truffato/ferito/messo-contro-nuove-alleanze-ostili – insomma, io e Jessica con la J di Giuda, ci mettemmo in postazione ai lati del tavolo della cucina, succhi di frutta all’albicocca a portata di mano, io Mario, lei Luigi, come sempre – e alla fine, non so come, mi verrebbe da dire tutto d’un fiato, sicuramente livello dopo livello (mica potevi salvarli), arrivai al trentaduesimo – e, boh, ce la feci. Cazzo, quel giorno stravinsi e apparentemente nessuno se ne accorse. A dire il vero, nemmeno io diedi grande importanza alla cosa, cioè la registrai a malapena. Seppellii quel piccolo trionfo nel mio piccolo archivio di piccole esperienze da otto-novenne media e me ne dimenticai completamente.

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Me ne sono ricordata all’improvviso qualche giorno fa, quando, per ragioni ignote, mi sono ritrovata a supplicare mio cugino di cedermi il suo vecchio Nintendo, il suo Nintendo storico, quello del 1987, lo stesso che gli sequestrai per anni quando ero piccola e lui ormai maggiorenne. Ci stavamo separando, e infatti ben presto mi abbandonò – pure lui! – per diventare adulto, ma fortunatamente aveva già fatto in tempo a istruirmi su varie cose di vitale importanza. O meglio: a mostrarmele.

Guardammo insieme Star Wars, Alien, i Gremlins, in mezzo a una quantità irragionevole di robaccia sci-fi e di action movies di infima qualità di cui non ho conservato memoria (Indipendence Day? Terminator? Sicuramente qualcosa con Jean-Claude Van Damme). È stato grazie ai fondamentali acquisiti allora, se oggi posso vantare una solida formazione fantascientifica. Già.

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Insomma, gli chiedo che fine abbia fatto il nostro Nintendo, e il giorno dopo, investito misticamente da un cono di luce privo di sorgente e con un sottofondo adeguato, tipo Requiem mozartiano, eccolo materializzato sulle scale di casa, nella sua confezione originale (già solo la cura riservata per vent’anni da un padre di famiglia a questo oggetto dimenticato da Dio, lì per lì mi riempie di commozione e di un senso ineffabile di complicità genetica nei confronti del mio unico cugino, che tra l’altro porta il mio stesso cognome).

La confezione originale: questa specie di compendio di visual design e di italiano promozionale anni ’80 zoppicante su calchi inglesi malriusciti: EMOZIONI PIENE DI AZIONE (cazzo vuol dire) PER L’INTERA FAMIGLIA –  ma a parte questo: guardate come sono tutti megafelici pur nelle loro improbabili acconciature! Guardateli. Io li capisco,  noi tutti nati negli anni ’80 dovremmo capirli. La pubblicità di allora era così veritiera, così priva di finzione a scopi commerciali. Come si fa a non provare gioia, come si fa a non soccombere alla fascinazione estetica senza tempo e all’arcaico splendore di una grafica a 8 bit!? Ditemi. 

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