REQUIEM PER UNA BAMBOLA

 

Here is the doll.

Hans Bellmer

hans-bellmer-la-poupee-1935Ti slacci gli arti dal tronco. Li torci su loro stessi, come se volessi strizzarli. Poi li riagganci. Fai ruotare le anche sui perni d’ottone, prima in senso orario poi in senso antiorario. Emettono un sibilo. Al posto della testa hai un pube. Un solo ombelico, perfettamente cesellato, e due bacini, quattro gambe, nessun seno.

Spii il mondo attraverso il foro cigliato dell’ombelico. Disponi di un unico occhio sprovvisto di palpebre. Ma di palpebre è ricoperto il mondo, non ne hai bisogno. Puoi scomporti e ricomporti con la sola forza del pensiero. La tua meccanica lo consente, e tu hai imparato a controllare ogni singolo gancio del tuo esoscheletro, ogni singola articolazione.

Il tuo corpo desta meraviglia e tu ne vai orgogliosa. Hai quattro fianchi stupendi, quattro rotule cromate mozzafiato. I visitatori si complimentano col Creatore, che a volte ti riporta i loro commenti, come se non li avessi sentiti. Lui non sa che ci sei. Non crede alla tua pancia pensante.

Alcuni collezionisti vorrebbero comprarti. Il Creatore risponde: mi dispiace, quest’opera non è in vendita.

Potresti alzarti sui tuoi quattro piedi in qualsiasi momento, andartene, ma non lo fai perché il Creatore ti vuole con sé. A volte si siede su uno sgabello e comincia a fissarti. Rimane così per ore certe sere. Oppure ti sfiora con le sue dita delicate e tu senti, senti che da un momento all’altro potrebbe distruggerti.

Per questo non te ne vai, perché Lui è più forte di te, sebbene di te ignori tutto. Non so niente di questa, lo senti dire spesso. Non so come sia nata. E’ Unica.

Lui non sa che ci sei, ma tu sai che Lui c’è.

Hai accettato il tuo destino.

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Unica Zürn (Grunewald, 6 luglio 1916 – Parigi, 19 ottobre 1970) è stata un’artista e scrittrice tedesca.

LUCIA JOYCE (Trieste, 1907 – Northampton, 1982)

Figlia di James e Nora. In preda alla collera, tirava sedie addosso alla gente. Si dice che una volta, in faccia al padre, abbia urlato: Io sono l’artista, io! Secondo Wikipedia, in modo del tutto prevedibile, “iniziò a mostrare segni di malattia mentale nel 1930, all’incirca quando cominciò a frequentare Samuel Beckett”. Il solito, trito teorema: amore non corrisposto ⇒ schizofrenia. E infatti fu questa la diagnosi con cui venne internata (rimossa, cancellata, per sempre). L’impossibilità di esprimere il proprio potenziale artistico non è mai stata una buona ragione per dare di matto, non per una signorina.

Non chiedeva altro che di poter danzare (esattamente come Zelda).

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DIBBUK

Un giro di possessioni a vuoto”

Fleur Jaeggy

Lo squallore. Ricapito per caso su questo blog ed è come mettere piede in una casa disabitata o evacuata all’improvviso, i resti ammuffiti della cena ancora sul tavolo, qualche sedia rovesciata nella fretta. Una spessa patina di polvere depositata su ogni superficie. Con il dito ci scrivo CIAO 2016, oppure BENTORNATA.

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Ho mandato al rogo per eresia ogni mia identità transitoria. Un olocausto privato inevitabile, perché ogni verità reclama il suo martire. Più volte mi sono sentita tentata di farlo anche con l’autrice di questi post. Come sbarazzarmi di lei? Perché non riesco a bruciarla viva? A infilarle la testa nel forno? 

La verità è che ci sono già troppi fantasmi nella mia vita. Strani spostamenti d’aria. Brividi lungo la spina dorsale.

C’è la ragazzina di 16 anni, per esempio, che mi guarda torva da un angolo della stanza.  E’ l’unica presenza-assenza con la quale non sia riuscita a riconciliarmi. Scuote la testa con disapprovazione, digrigna i denti. Non mi perdona di averla tradita, tanto tempo fa.

Nei suoi vasi sanguigni, o in ciò che ne resta, circola sangue lavico. Il suo fiato è incandescente. La sua pelle, un’unica ustione.

Io la guardo e rido. Lei brucia.

Il mio piccolo caro fuoco fatuo.

Non so come dirle che le voglio bene.

Le parole non le arrivano, le arriva qualcosa di più diretto delle parole.

Senti, tesoro, cosa c’è che non va? L’infanzia sarebbe finita comunque prima o poi. Eri già una patologia nel mio dna.

Lei risponde arroventando le pupille. Ha occhi animali, due grosse biglie di mica incastonate nelle orbite, o in quel che ne resta. Occhi che riflettono migliaia di altri occhi.

Cosa avrei dovuto fare? Eri troppo intransigente, troppo dura. Non sono stata io ad ucciderti, ti sei uccisa da sola, ricordi?

Mi guardo intorno, le indico la stanza, la sua vecchia camera da letto, descrivendo un ampio semicerchio con il braccio.

La ragazzina appendeva sulle pareti ritratti di donne cancellate dalla Storia, come in quell’installazione di Christian Boltanski, Autel de Lycée Chases. Collezionava nomi di donne morte, come io oggi colleziono piante d’appartamento. Antonia Pozzi, Sylvia Plath, Simone Weil, Virginia Woolf, Sarah Kane, Unica Zuern, Cristina Campo, Amelia Rosselli, Dora, Janet Frame, Camille Claudel, Ana Mendieta, Augustine, Lotte Pritzel, Djuna Barnes, Emily Dickinson, Lucia Joyce, Zelda Fitzgerald… Nomi e nomi e nomi.

Zelda, Ingeborg, Clarice – le Grandi Incendiate del secolo scorso.

Nomi e nomi e nomi.

(Boltanski: “L’archivio è un modo di lavorare puntando al fallimento. Puoi archiviare tutto, puoi contare il numero delle bottiglie, delle persone, ma più archivi, più nascondi.” Più archivi e più nascondi: scrivitelo da qualche parte.)

Nella mitologia ebraica, le anime inquiete dei suicidi si chiamano dibbuk.

Troppi dibbuk nella sua adolescenza. Troppe sovrimpressioni, troppe POSSESSIONI, povera piccola.

Volevi salvarle tutte, non è vero?

Io ho fatto di più. Ti ho trasformata in una di loro. Ma non appenderò il tuo ritratto sulle pareti della mia stanza. Invece pianterò un seme di arancia in un vaso, come feci allora, e aspetterò che germogli in questa luce polverosa.

Perché germoglierà.

RAGAZZE VERDI

I live my part too — only I can’t figure out what my part is in this movie.

Edie Sedgwick in Andy Warhol’s Kitchen

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Londra. In primo piano, il volto inespressivo di una ragazza bionda. Avrà poco più di vent’anni, è americana e assomiglia in modo sorprendente a Jean Seberg (New York Herald Tribune!). Segni distintivi: un talento ammirevole nel passare inosservata; una preoccupante predisposizione all’annientamento. La personalità, un lusso per pochi. Costa troppo. Per qualcuno come Agnes è importante avere una firma nella vita. Agnes, fino a prova contraria, è la sua migliore amica, una fiammata di capelli rosso Tiziano, una femme fatale alla Ava Gardner. Agnes sa mettersi in posa a beneficio di un pubblico invisibile. Lei no. Una green girl, una ragazza acerba, in costante riconfigurazione, una firma non ce l’ha. Lei è nata per essere un’icona della rovina. Ruth lavora ai grandi magazzini, corpo tra corpi e immagini di corpi. È pagata per sorridere e per promuovere il profumo Desire. Desire? Desire? Le piacerebbe provarlo? Kate Zambreno, dal canto suo, è un’autrice sadica come poche altre. Ruth le ricorda le Barbie con le quali giocava da bambina. A quelle che amava di più riservava i trattamenti peggiori. Tagliava loro i capelli perché assomigliassero a Ken. Sottoponeva i loro corpi a fantasiose macchine di tortura. “Forse scrivere per me è un’estensione di quei giochi infantili. Ruth è la mia bambola. Spasimo per darle vita e per commettere indicibili atti di violenza contro di lei. Provo sprazzi di gioia di fronte alla sua sofferenza.” C’è qualcosa di mistico nel suo essere assolutamente niente, nel suo tendere asintoticamente al nulla, allo zero, al meno di zero, al vuoto, all’antimateria, a Dio. Ruth, come una santa dalle palpebre glitterate, che riceve la chiamata attraverso le pagine di Vogue. Ho fatto esperienza della perdita, tutto il suo corpo è teso verso questa confessione. Sarà Rhys, che la ama ma che rifiuta di toccarla, a parlarle di Caterina da Siena e di Teresa d’Avila, che sentiva le viscere disfarlesi a contatto con la freccia d’amore divino che l’aveva penetrata. (Che puttana, commenterà Agnes.) Ruth non vuole che i ragazzi siano carini con lei, vuole che siano delle bestie. Il sesso, l’ennesimo esperimento di autodistruzione. Un suicidio mascherato, un “mythical suicide”, ma senza rinascita. Voglio distruggerla. Voglio distruggere me stessa se questo distruggerà la cosa che ho dentro. L’eutanasia della giovinezza. Alla fine non si tratta che di questo: di trovare un modo per ratificare la propria sparizione mentre il nostro riflesso ci sfreccia ancora davanti su ogni vagone in transito della metro come su uno schermo cinematografico. Un attimo prima che il brulichio dei vivi ci divori. Mind the gap.

Kate Zambreno – Green Girl (Harper Perennials, 2014)

HYSTERIA. Nouvelle iconographie de la Salpêtrière

1862

153 crisi epilettiche.

Tasso di guarigione stimato intorno al 9,7 %.

254 decessi di donne per “presunte cause di alienazione”, così classificate: 38 cause fisiche (tra cui onanismo, scrofole, colpi e ferite, dissoluzione e libertinaggio, colera, erotomania, alcolismo, stupro), 20 cause morali (tra cui l’amore, la gioia, le “cattive letture”, la nostalgia e la miseria) e una in cui confluivano tutte le “cause sconosciute”.

La parola isteria non è ancora entrata nell’uso. 

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I LOVE DICK

I Love Dick (Semiotext(e) / Native Agent, 1997) è uno di quei libri che non riesci mai davvero a riporre sullo scaffale. Almeno a me non è ancora riuscito. C’è una sfrontatezza in queste pagine che ti arriva come uno schiaffo in faccia e ti impedisce di andare oltre il bruciore dell’offesa.

Del romanzo d’esordio di Chris Kraus si è scritto poco e male (fa eccezione una tardiva recensione di Leslie Jamison). Nella maggioranza dei casi si è tentato di cristallizzare il testo, per sua natura viscoso, in vacue formule di circostanza, per esempio descrivendolo affrettatamente come l’abnorme narrazione di un ménage à trois iperintellettuale. Ma per quanto l’assunto corrisponda all’effettiva struttura del romanzo, non riesce a immobilizzarne il contenuto sfrenato, che travasa in derive vertiginose di pagina in pagina e, vorrei dire, di paragrafo in paragrafo, sfuggendo rovinosamente di mano.

Mi domando se il fascino maggiore dell’opera di Kraus non stia proprio nel suo essere ostile, nella sua capacità di opporre resistenza a una decodifica puramente razionale, in questa sua lucidissima incongruità.

Sì, la cosa più bella di I Love Dick, e della scrittura di Chris Kraus in generale, è la sua assoluta refrattarietà alla parafrasi, perché è così che la scrittura diventa qualcosa di irreprimibile. E io mi sento confortata nel sapere che scrittrici imparafrasabili e ostili come l’Anna Maria Ortese toledana, l’Ingeborg Bachmann di Malina, la Sarah Kane di 4.48 Psychosis, l’Amelia Rosselli più bellicosa, insieme a molte altre, non potranno mai davvero essere messe a tacere, perché non smetteranno mai di offendere.

– Because I’m moved to writing to be irrepressible. Writing to you seems like some holy cause, cause there’s not enough female irrepressibility written down. I’ve fused my silence and repression with the entire female gender’s silence and repression. I think the sheer fact of women talking, being, paradoxical, inexplicable, flip, self-distructive but above all else public is the most revolutionary thing in the world.