ALCUNE COSE BELLE CHE SONO ENTRATE A FAR PARTE DELLA MIA VITA

Volevo parlarvene da tempo ma per un motivo o per l’altro non mi sentivo mai in vena di farlo. Vuoi perché i cambi di stagione mi ammazzano, vuoi perché il mio livello di espansività aveva toccato i suoi minimi storici. Purtroppo mi capita spesso di scoraggiarmi e di chiedermi in tutta onestà cosa diamine ci faccio qua sopra, che senso abbia scrivere su un blog, soprattutto mi chiedo che senso possa avere tutto questo per una persona di indole introversa. Mi sto obbligando a farlo? In un certo senso, sì. La ragione ve l’ho spiegata un numero incalcolabile di volte. Sappiate in ogni caso che perfino all’apice della mia peggiore crisi di misantropia, io ci tengo a voi, Impavidi 114 Lettori della fulgida genia di WordPress – e anche a voi, ci tengo, cari 13 di Facebook che mi (non) seguite con ammirevole discrezione, e ci tengo perfino a voi, Visitatori Anonimi, siete i benvenuti.

Comunque.

Negli ultimi mesi si sono registrati svariati episodi di generosità a vantaggio della sottoscritta (era il mio compleanno, era Natale, era un mesiversario, era quel cazzo che vi pare, ogni occasione è buona per farmi un regalo – tranne che: a San Valentino e per la Festa della Donna, due ricorrenze che non sono in nessun modo contemplate dal mio calendario). Tre quarti delle cose belle che ho ricevuto me le ha regalate lui. Vi sembrerà bizzarro, ma c’è qualcuno che da quasi 5 anni mi ama.

 

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CUFFIE BOSE SOUNDLINK. Ecco, queste bellezze provengono appunto da lui. Non sapevo nemmeno di desiderarle finché non me le ha regalate. La caratteristica più impressionante di queste cuffie wireless è la funzione Noise Cancelling, cioè la loro capacità di isolamento acustico per un’esperienza di suono letteralmente immersiva. In pratica, le metti e improvvisamente ti ritrovi sott’acqua. Con una carica vanno avanti per settimane anche se sottoposte a un utilizzo intensivo, che non è poco. In più il design Bose mi piace un casino perché è terribilmente tecnico, sono fatte di nylon rinforzato con fibra di vetro e acciaio inossidabile, in una parola: sono infrangibili – con le Bose addosso mi sento una via di mezzo tra una cyber-mistica sorda al mondo e una discendente di Jodie Foster in Contact. Naturalmente, ho tralasciato l’aspetto più performante ma mi sembra talmente ovvio: la qualità del suono è a dir poco sbalorditiva, specialmente se valutata la fascia di prezzo. Come ho già detto altrove, in breve tempo sono diventate le mie più fedeli compagne di binge-watching. (Procedo un po’ a rilento, in realtà, ma lasciatemelo dire: la seconda stagione di X-Files spacca. Ormai non posso non annoverare questa serie tra le mie preferite di sempre, sta scalando la classifica in tempi record e attualmente si trova un mezzo gradino al di sotto di Lost, cioè vicinissima al Primo Posto. Rassicuratevi: non vi parlerò di X-Files ancora per molto, mi mancano solo ahem 8 stagioni).

CANDELA DICE KARTELL FRAGRANCES. Non ero a conoscenza di questa linea di candele profumate, quindi mi ha sorpreso moltissimo riceverla. Che dire? È bellissima, interpreta plasticamente l’annoso dilemma della quadratura del cerchio e ha una profumazione indefinibile e opulenta, estremamente incisiva. L’ho accesa tutte le sere per un certo periodo. Ma adesso che è rimasto solo il fondo mi dispiace consumarla del tutto, e quindi mi limito a contemplarla e ad annusarla da spenta. Esiste un termine specialistico per designare la Paura di Dimenticare? Amnesifobia? La necessità di ricordare TUTTO, di trattenere il ricordo di ogni singolo istante vissuto, è sicuramente uno dei moventi più tenaci e drammatici della mia vita diurna. È la ragione per cui mi ostino a conservare flaconi di profumo vecchissimi – esauriti ma mai fino all’ultima goccia – perché se li scapocchio mi riportano ancora alla mente il periodo in cui li indossavo (su, da Marilyn in poi, i profumi si indossano).

DANIEL WELLINGTON SHEFFIELD 36MM. Non so bene per quale ragione abbia sentito l’impulso di comprarmelo, forse perché era in superofferta su Amazon ByVip, o forse perché certi messaggi subliminali di Instagram e Pinterest vanno più a fondo di altri (nessuno uscirà indenne dal panopticon di Instagram). Non lo so. Il mistero si infittisce se consideriamo poi che ho comprato la versione con cornice in oro rosato. O-ro-ro-sa-to, capite? Mmh. Be’, comunque è elegantissimo, fin troppo, forse. È una specie di gioiello che in più ti dice l’ora anche se io in modo automatico guardo comunque sul telefono. Mettiamola così, è un incentivo di tutto rispetto per riattivare una gestualità ormai in disuso. Quella che consiste nel compiere una lieve torsione del polso per mettere in luce il quadrante e un paio di lancette meccaniche.

IPHONE 7. Regalo di compleanno dei miei evaso in differita. Mia madre, in particolare, da anni si cala ciclicamente nei panni della subdola tentatrice: Gioia, se lo vuoi, la mamma te lo compra. E io, ectoplasma irrorato all’improvviso da litri e litri di sangue, vacillavo per un secondo ma poi rispondevo Naaah, l’iPhone è roba da teenager smanettoni, poi costa troppo. La verità è che l’iPhone così come l’abbiamo conosciuto negli ultimi anni non mi ha mai detto un granché. Tutti quei soldi li avrei sborsati solo per il Dispositivo Tecnologico Perfetto e secondo i miei standard estetici e funzionali l’iPhone 5 era perfettibile, il 6 poteva quasi andare ma aveva ancora le profilature d’acciaio a contrasto. Quindi, nay. Nel frattempo tuttavia il mio amatissimo Samsung Galaxy sII Plus, dopo un tre anni di piena efficienza operativa (mai sottovalutare Android) cominciava a mostrare i primi segni di cedimento a livello di software, praticamente mi stava rantolando in mano. E siccome lo smartphone mi è indispensabile sul lavoro, ho iniziato a sentirmi in ansia ogni volta che ero di turno. Poi, un bel giorno, nel corso di uno dei miei tour perlustrativi da Unieuro/Euronics/Trony/Expert ecc. – credo di essermeli fatti tutti – in cerca di promozioni utili, ho cominciato ad occhieggiare con crescente insistenza l’iPhone 7, che se ne stava lì, sotto un’urna di cristallo come Biancaneve. Dopo ripetute ricerche online sono arrivata alla conclusione che avevo trovato la perfezione in forma di smartphone. E mi sono convinta che anche solo per il design valeva tutti quei cazzo di soldi. Rivedo la scena, io che con la testa ciondoloni mi tormento Non so, non so – e accanto a me i miei che esclamano Ma sì, ma sì, a parte il Momo sei la nostra unica figlia. A quel punto ho aperto a fessura un occhio, e quell’occhio brillava di una luce sinistra.

Eccolo qui, lo sto guardando proprio in questo momento. E niente, sembra fatto apposta per gratificare il mio apparato percettivo. E’ integralmente nero e quando dico integralmente nero intendo in ogni sua singola componente, e il case è opaco – ripeto opaco, è sottile, ergonomico e dannatamente solido. E’ il monolite di Kubrik. E’ l’oggetto più somigliante a un manufatto alieno che mi sia capitato di vedere in giro.

THE TRUTH IS OUT THERE

Ok, basta farfugliamenti esistenziali. No spoiler.

La cosa bella di quando si è malati è che si può stare per giorni interi sotto il piumone beatamente incuranti del prossimo (perché è il prossimo in teoria che dovrebbe occuparsi di noi) senza inutili sensi di colpa.  Ho acceso il proiettore 2 giorni fa e se mi è capitato di spegnerlo è stato solo per evitare che prendesse fuoco per surriscaldamento, e per andare al lavoro (sì, con la febbre, succede, sapete).

Comunque, tra un Fluimucil e una Vivin C, e tra una crisi letargica e l’altra, sto finendo di vedere la prima stagione di X-Files. Ebbene sì.

Finalmente sto associando un immaginario coerente a quella sigla assurda sputtanata ovunque.

Ora, affrontiamo un secondo la questione Serie TV Cult Anni Novanta. Perché se è molto facile schierarsi dalla parte dell’agente Dale Cooper, un gesto pressoché naturale per qualsiasi individuo filmicamente svezzato, infinitamente più complesso risulta esprimere il proprio apprezzamento per l’agente Fox “Spooky” Mulder.

Sappiate che io gli voglio un casino di bene proprio perché è così sfigato.

(Per la cronaca: sua sorella è sparita misteriosamente quando lui era solo un ragazzino trasformandolo in un condotto di forze sconosciute – sentiva le voci! Le sente ancora? – e traumatizzandolo al punto tale da farne in età adulta un workaholic dedito all’archivio compulsivo e all’occasionale riapertura di casi irrisolti e inspiegabili – gli X-files! – nonché un contributor sotto pseudonimo di testate specializzate in occultismo. – Pensavo che nessuno ci avesse fatto caso. – C’è sempre qualcuno che ci fa caso.)

Che ci vuole ad amare Twin Peaks? (Lo amiamo tutti!) C’è lo zampino autoriale di Lynch, almeno nella prima stagione, c’è la colonna sonora di Angelo Badalamenti che abbiamo imparato ad amare fin dalla più tenera età grazie a una qualsiasi compilation newage (il Twin Peaks Theme c’era sempre, sempre!), c’è l’alter ego lynchiano per antonomasia Kyle MacLachlan (Dune, Velluto Blu, you know), ci sono i dialoghi e i frame enigmatici da decriptare (sarà che abbiamo visto Mulholland Drive troppe volte ma la naiveté aurorale di Lynch non ce la beviamo), il misticismo, l’amore impossibile tra Cooper e Audrey (un personaggio orribilmente deturpato/normalizzato nella seconda stagione), il caffè nero, la meditazione a testa in giù e i report su nastro magnetico di Cooper (Diaaane…). Insomma, è troppo facile, ammettiamolo.

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Ma l’agente Mulder, da che mondo è mondo, chi se lo fila?  La dottoressa Gruber ehm Scully non vale. Lei è cotta fin dalla prima proiezione di diapositive cui Mulder l’ha sottoposta nel suo ufficio-ripostiglio sotterraneo ma ancora non lo sa.

Insomma, chi?

Ecco. Ecco perché io voglio credere (in Mulder).

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Che poi, chissà per quale ragione, io sono cresciuta con la percezione involontaria di due agenti dell’FBI vecchi e stanchi. Cioè, X-Files mi è sempre sembrato un telefilm per gente attempata desiderosa di immedesimarsi in protagonisti altrettanto attempati. Invece, incredibile!, Mulder&Scully sono giovani! Lui ha 33 anni, lei forse qualcuno in meno: praticamente siamo coetanei. Sono ancora sotto shock. (Sto anche riflettendo sul fatto che agli occhi di una bambina di 6 anni io appaio come una donna attempata vecchia e stanca.)

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La prima stagione lascia un po’ spiazzati. Risente moltissimo dell’incertezza del futuro, del suo stesso futuro, a livello di produzione e di scrittura. È concepita come una lunga, a tratti estenuante, teoria di episodi autoconclusivi. A me ricorda tantissimo certe raccolte di racconti di Stephen King. Le atmosfere sono molto simili. Si affonda con piacere nello stereotipo di genere, in un montaggio perfetto di cliché narrativi e cinematografici, per poi lasciarsi catturare da un dettaglio infinitesimale e del tutto inaspettato, un punctum, un vertice di scoordinazione assolutamente violento e fatale che rimescola tutte le carte in tavola e ti intrippa fino alla fine dei tempi. Può nascondersi nella battuta di un dialogo, un termine tecnico che non ti aspettavi, in un elemento d’ambiente, in un capo d’abbigliamento, persino. Insomma, il punctum è lì e ti precede da sempre e arriva sempre il momento in cui ti si rivela e tu decidi così di continuare la visione perché ti senti afferrato impigliato posseduto da quella rivelazione di cui non sospettavi minimamente l’esistenza. Come nei racconti di King tutto torna eppure niente torna o torna in maniera ambigua e l’ambiguità non riguarda mai ciò che ti aspetti ma sempre qualcos’altro (sto un tantino esagerando, ok). 

Non so nulla della seconda stagione, non spoileratemela, please. Forse sarà un’altra raccolta di racconti, o forse, questa volta, a fronte del successo ottenuto, prenderà – avrà preso? i tempi verbali si complicano maledettamente parlando di una prospettiva futura realizzatasi in un passato che sarebbe stato il mio presente del futuro – la forma di un romanzo, io mi godo l’incertezza sotto le coperte, appallottolando un kleenex dopo l’altro e sorbendo tisane dai nomi significativi (“Gioia di vita”).

Mi aggiro per la stanza

sollevando appena i piedi. È più come transitare lungo il perimetro di un pensiero, avendo cura di non sfiorarlo. Su ogni cosa aleggia una frase incompleta. Una frase difettosa incapace di concludersi. La osservo sventolare dal soffitto come un lenzuolo trasparente. 

Questo piano è senza finestre: è una camera o un cubicolo oscuro, adorno soltanto di una tela tesa e “diversificata da pieghe”, come un derma messo a nudo. (Deleuze) 

Il margine non è pacificato, il centro è sotto assedio, si scinde. È una cellula in mitosi. La proliferazione come fuga, come nascondiglio. 

Non ho argomenti sufficientemente validi da scalfire il nulla che mi perseguita come un dio innamorato. Non ho la forza di stringere un’alleanza con l’assenza. La vita è solo uno spessore delle parole, un’ombra gettata. 

Ieri pomeriggio per un attimo ho sentito l’impulso di accendere la tv. Mi sono controllata. È inutile scappare nelle immagini.

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C’erano molti modi per descrivere quella sensazione. Le definizioni si sprecavano.

Astenia. Tristezza acuta. Derealizzazione. Weltangst. Poteva sempre inventarsene di nuove. 

Quando ne parlava, quando era forzata a parlarne, si lasciava soccorrere da tropi fantascientifici. Parlava di rapimenti alieni, di viaggi extracorporei – e all’improvviso si sentiva al sicuro. Se sul suo volto baluginava l’accenno di un sorriso, i suoi interlocutori occasionali, dopo un iniziale sconcerto, scoppiavano a ridere. Erano risate liberatorie. Erano risate che ristabilivano l’ordine. Risate che, lo si capiva benissimo, credevano incrollabilmente nel regolare succedersi delle stagioni e nell’avvicendamento di giorno e notte. Dicevano, Niente di grave. E ammiccavano. 

Lei invece non ci credeva sempre, non incrollabilmente, all’avvicendarsi di luce e buio. A volte la luce durava un attimo di troppo. Oppure la notte non se ne andava mai. Intuiva che le cose potevano sempre andare diversamente da come ci si aspettava. Le leggi naturali non le sembravano così affidabili, dopotutto. L’ordine delle cose era troppo vulnerabile.

JUVENILIA #3 THANK YOU, MARIO

Mi riuscì una volta sola.

Di affrontare Bowser, – vi prego, ditemi che sapete chi è Bowser – il vero BOWSER, faccia a faccia, di sconfiggerlo e di trarre in salvo la ieratica Peach, principessa del popolo fungicefalico dei Toad.

Avrò avuto otto-nove anni, e mi lasciavo allegramente alle spalle una scia multicolore di cadaveri, centinaia, che dico, migliaia di Goomba e di Koopa Troopa spappolati o inceneriti in giro per il Regno dei Funghi, in un’avventura che aveva comportato l’attraversamento di otto mondi.

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Capitò quel pomeriggio, dopo Bim Bum Bam. Io e Jessica con la J di Jurassic Park, che all’epoca ancora si fregiava del titolo di Migliore Amica e che di lì a un paio d’anni, inspiegabilmente, sarebbe passata al lato oscuro della forza: tempo due anni e mi avrebbe tradito/truffato/ferito/messo-contro-nuove-alleanze-ostili – insomma, io e Jessica con la J di Giuda, ci mettemmo in postazione ai lati del tavolo della cucina, succhi di frutta all’albicocca a portata di mano, io Mario, lei Luigi, come sempre – e alla fine, non so come, mi verrebbe da dire tutto d’un fiato, sicuramente livello dopo livello (mica potevi salvarli), arrivai al trentaduesimo – e, boh, ce la feci. Cazzo, quel giorno stravinsi e apparentemente nessuno se ne accorse. A dire il vero, nemmeno io diedi grande importanza alla cosa, cioè la registrai a malapena. Seppellii quel piccolo trionfo nel mio piccolo archivio di piccole esperienze da otto-novenne media e me ne dimenticai completamente.

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Me ne sono ricordata all’improvviso qualche giorno fa, quando, per ragioni ignote, mi sono ritrovata a supplicare mio cugino di cedermi il suo vecchio Nintendo, il suo Nintendo storico, quello del 1987, lo stesso che gli sequestrai per anni quando ero piccola e lui ormai maggiorenne. Ci stavamo separando, e infatti ben presto mi abbandonò – pure lui! – per diventare adulto, ma fortunatamente aveva già fatto in tempo a istruirmi su varie cose di vitale importanza. O meglio: a mostrarmele.

Guardammo insieme Star Wars, Alien, i Gremlins, in mezzo a una quantità irragionevole di robaccia sci-fi e di action movies di infima qualità di cui non ho conservato memoria (Indipendence Day? Terminator? Sicuramente qualcosa con Jean-Claude Van Damme). È stato grazie ai fondamentali acquisiti allora, se oggi posso vantare una solida formazione fantascientifica. Già.

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Insomma, gli chiedo che fine abbia fatto il nostro Nintendo, e il giorno dopo, investito misticamente da un cono di luce privo di sorgente e con un sottofondo adeguato, tipo Requiem mozartiano, eccolo materializzato sulle scale di casa, nella sua confezione originale (già solo la cura riservata per vent’anni da un padre di famiglia a questo oggetto dimenticato da Dio, lì per lì mi riempie di commozione e di un senso ineffabile di complicità genetica nei confronti del mio unico cugino, che tra l’altro porta il mio stesso cognome).

La confezione originale: questa specie di compendio di visual design e di italiano promozionale anni ’80 zoppicante su calchi inglesi malriusciti: EMOZIONI PIENE DI AZIONE (cazzo vuol dire) PER L’INTERA FAMIGLIA –  ma a parte questo: guardate come sono tutti megafelici pur nelle loro improbabili acconciature! Guardateli. Io li capisco,  noi tutti nati negli anni ’80 dovremmo capirli. La pubblicità di allora era così veritiera, così priva di finzione a scopi commerciali. Come si fa a non provare gioia, come si fa a non soccombere alla fascinazione estetica senza tempo e all’arcaico splendore di una grafica a 8 bit!? Ditemi. 

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JUVENILIA #1 RIDATEMI LE GALOCHE!

Ecco qua. Perché non pensiate che me ne sto con le mani in mano a riflettere sui quasar, mi sono inventata una nuova rubrica. JUVENILIA vuole essere uno spazio di consacrazione per tutti quegli oggetti e tutte quelle abitudini che hanno reso piena e intensa la nostra infanzia (se avete vent’anni e qualcosa, o viaggiate per la trentina, vi riconoscerete certamente qua e là) e che in seguito ci sono stati barbaramente sottratti. Dalla vita adulta, dalla moda, dal mercato. 

Ok, avete presente Rosetta, il fim dei fratelli Dardenne Palma d’oro a Venezia per l’interpretazione femminile nel 1999?

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Bene, io venero questo film, noleggiato la prima volta in VHS alla biblioteca comunale di una cittadina di 16.000 anime, in unetà in cui certe immagini possono ancora segnarti con ferocia. Se mai scriverò un romanzo, vorrei che assomigliasse a questo capolavoro che non si fila nessuno. 

Questa premessa è necessaria per introdurvi alla Questione dello Stivale di Gomma. Il film infatti è scandito da un gesto semplice e struggente compiuto a più riprese dalla protagonista: quello di cambiarsi le scarpe prima di addentrarsi nel fitto della sterpaglia per raggiungere la roulotte che condivide con la madre clinicamente depressa. Vediamo ripetutamente Rosetta togliersi le scarpe belle, quelle che indossa in città, per sostituirle con un paio di galoche.

Ecco, ditemi, perché mai mi avete defraudata delle mie galoche? Gli stivali di gomma, soprattutto se squisitamente inzaccherati di terra, più di tante altre cose, rimandano alla mia essenza, a quello che sento di essere nel profondo: ruvida, introversa e molto poco urbanizzata. Fanno appello non tanto alla mia anima provinciale, quanto piuttosto alla mia anima più genuinamente boschereccia. Siena sarà pure la Civiltà, ma nelle mie vene scorre sangue trentino. Odore di erba tagliata nel dopopioggia e lastroni acuminati di roccia sedimentaria. Aria lacustre, tronchi foderati di muschio e spiagge sassose. Parlata grave e solenne, lineamenti asburgici.

Gli stivali di gomma li portava abitualmente mio nonno, con i pantaloni infilati dentro, e li portavo spesso e volentieri anch’io da bambina. Quando il massimo dei divertimenti era affondare le mani nella terra umida per estrarne radici, o registrare giornalmente su una vecchia agenda R.A.S. i volatili che avvistavo, distinguendoli tra maschi e femmine (ebbene sì, c’è dimorfismo sessuale anche tra gli uccelli): 2 merli maschi, una capinera maschio, un merlo femmina.

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Ancora oggi la gente ride perché so distinguere a colpo d’occhio una gazza da un batticoda, o un fringuello da una cinciallegra. Capita di sapere cose senza ricordare come le si è imparate.

Possiedo diverse paia di noiosissimi stivali in pelle – classici, metropolitani.

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Ma desidero in modo atroce quelli di gomma – non chiamateli rainboots in mia presenza, ve ne prego. Attendo con trepidazione che qualcuno li sdogani nelle vie del centro storico senese. Attendo di vedermeli sgambettare all’improvviso di fianco, così da poterli indossare anch’io.

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Non sono una pioniera in fatto di abbigliamento. E farmi presente che sono almeno due anni che le galoche spopolano tra le celebrities di mezzo mondo, non è esattamente la trovata più geniale per indurmi a fregarmene del giudizio altrui. Semplicemente perché quel mondo non è il mio mondo. Io voglio vedere le galoche in piazza del Campo (giorni di Palio esclusi).

 

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Post lunghetto ma pieno di saggi consigli.


Me lo suggerirono dalla regia più di un anno fa.

“Cristo, ma tu i film li guardi così? Hai mai pensato di comprare, che so, un proiettore?”

Perché scusa? Cosa c’è?”

Silenzio.

Ok, lo ammetto, non è facile godersi un film fresco di download sullo schermo di un Mac 13’’, per di più seduta a tavola su una sedia molto poco ergonomica.

Eppure ci riuscivo.

Mi sono guardata una marea di film bellissimi in questo modo, tutto Antonioni e Top of the Lake (miniserie d’autore della quale dovrò assolutamente parlarvi), fra gli altri.

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❤︎ Holly Hunter

A vent’anni si è incredibilmente flessibili. Puoi cenare a gambe incrociate su un tappeto, dormire per mesi in un letto rotto, rovinosamente inclinato, farti la doccia con acqua fredda in pieno inverno a causa di un guasto alla caldaia, andare a dormire alle 5 del mattino e svegliarti alle 15 del pomeriggio, camminare abitualmente, con estrema distinzione, indossando un paio di stivali con i tacchi di diversa altezza, senza che nessuno si accorga mai di nulla.

Poi semplicemente invecchi. A vent’anni e qualcosa cominci ad accusare le distorsioni fisiche imposte dal tuo stile di vita.

E niente, ad un certo punto, come dire, mi sono rotta il cazzo di sedermi a tavola per guardare un cazzo di film su un cazzo di monitor 13’’.

Domanda legittima: per quale motivo la scelta è caduta su un proiettore e non su un normalissimo schermo tv, che ormai te lo tirano dietro perfino alla Pam?

Semplice, perché detesto gli oggetti ingombranti. Chi mi conosce sa quanto ami circondarmi di oggetti leggeri, trasportabili e privi di massa. Un televisore semplicemente non si sposa con la mia filosofia di vita tascabile, apri e chiudi. Non è rimovibile, non è occultabile ed è collegato a una matassa di cavi (per quanto io apprezzi l’estetica linearistica del cavo elettrico, i suoi inaspettati grafismi Art Nouveau, no: non potrò mai accettare i cavi di un televisore di ultima generazione).

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Senza contare che io una mini tv già ce l’ho. Una di quelle anni ’90, sapete, quadrate bombate e plasticose che tagliano i titoli del tg in modo meravigliosamente dadaista. Una tv del genere, da circolo Arci, o da ospizio, mi piace un casino, una tv così mi piace proprio. Ma alla vista di un mega schermo piatto al plasma, non potrei mai farci l’abitudine, mai.

Così ho comprato il proiettore.

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E la magia ha avuto inizio.

Il Philips Picopix 3614 è una delle invenzioni più sorprendenti con cui abbia mai avuto a che fare. È un affarino da nulla, ingombro zero, sta nel palmo di una mano (di una manona alla Gianni Morandi, per la verità), ma ti spalanca un universo che mai avresti creduto possibile. Le caratteristiche tecniche le trovate su qualsiasi sito specializzato, non sto ad elencarvele. Vi basti sapere che questo gioiellino legge tutti i formati video, è wireless (può connettersi alla vostra linea wi-fi oppure generarne una autonoma come hotspot) ed è dotato di porta USB.

Insomma, ragazzi: ho un home theatre! Non è commovente? Posso guardare i film stesa comodosamente sul lettone come una persona normale! Dio, grazie.


Per concludere, qualche osservazione pratica. Il Picopix preso singolarmente non basta. Servono alcuni accorgimenti strategici.

  • Non pensate di proiettare sulla nuda parete della stanza. Così, l’alta definizione va definitivamente a farsi fottere. Le asperità dell’intonaco sono insidiosissime e, sì, compromettono in modo irritante la qualità dell’immagine. Compratevi un telo da proiezione, bianco o grigio, a seconda delle condizioni di luminosità di cui disponete. Io, nel dubbio, l’ho preso bianco, 150X150 cm, con treppiede e riavvolgibile. Basta un tocco per montarlo, e un altro tocco per toglierlo di mezzo.
  • L’audio integrato del Picopix non è il massimo. Anzi, diciamo che fa proprio cagare. Quindi è necessario un dispositivo di qualche tipo che amplifichi il suono. Vi prego, lasciate perdere tutte queste case di produzione hipster, che puntano più all’estetica che alla qualità del suono. Le SoundLink Mini Bose sono la scelta migliore. Ottimo rapporto qualità-prezzo. Estetica minimalista, lineare, senza fronzoli. Dimensioni ridotte. Qualità del suono pazzesca.

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