Ecco qua. Perché non pensiate che me ne sto con le mani in mano a riflettere sui quasar, mi sono inventata una nuova rubrica. JUVENILIA vuole essere uno spazio di consacrazione per tutti quegli oggetti e tutte quelle abitudini che hanno reso piena e intensa la nostra infanzia (se avete vent’anni e qualcosa, o viaggiate per la trentina, vi riconoscerete certamente qua e là) e che in seguito ci sono stati barbaramente sottratti. Dalla vita adulta, dalla moda, dal mercato.
Ok, avete presente Rosetta, il fim dei fratelli Dardenne Palma d’oro a Venezia per l’interpretazione femminile nel 1999?
Bene, io venero questo film, noleggiato la prima volta in VHS alla biblioteca comunale di una cittadina di 16.000 anime, in un’età in cui certe immagini possono ancora segnarti con ferocia. Se mai scriverò un romanzo, vorrei che assomigliasse a questo capolavoro che non si fila nessuno.
Questa premessa è necessaria per introdurvi alla Questione dello Stivale di Gomma. Il film infatti è scandito da un gesto semplice e struggente compiuto a più riprese dalla protagonista: quello di cambiarsi le scarpe prima di addentrarsi nel fitto della sterpaglia per raggiungere la roulotte che condivide con la madre clinicamente depressa. Vediamo ripetutamente Rosetta togliersi le scarpe belle, quelle che indossa in città, per sostituirle con un paio di galoche.
Ecco, ditemi, perché mai mi avete defraudata delle mie galoche? Gli stivali di gomma, soprattutto se squisitamente inzaccherati di terra, più di tante altre cose, rimandano alla mia essenza, a quello che sento di essere nel profondo: ruvida, introversa e molto poco urbanizzata. Fanno appello non tanto alla mia anima provinciale, quanto piuttosto alla mia anima più genuinamente boschereccia. Siena sarà pure la Civiltà, ma nelle mie vene scorre sangue trentino. Odore di erba tagliata nel dopopioggia e lastroni acuminati di roccia sedimentaria. Aria lacustre, tronchi foderati di muschio e spiagge sassose. Parlata grave e solenne, lineamenti asburgici.
Gli stivali di gomma li portava abitualmente mio nonno, con i pantaloni infilati dentro, e li portavo spesso e volentieri anch’io da bambina. Quando il massimo dei divertimenti era affondare le mani nella terra umida per estrarne radici, o registrare giornalmente su una vecchia agenda R.A.S. i volatili che avvistavo, distinguendoli tra maschi e femmine (ebbene sì, c’è dimorfismo sessuale anche tra gli uccelli): 2 merli maschi, una capinera maschio, un merlo femmina.
Ancora oggi la gente ride perché so distinguere a colpo d’occhio una gazza da un batticoda, o un fringuello da una cinciallegra. Capita di sapere cose senza ricordare come le si è imparate.
Possiedo diverse paia di noiosissimi stivali in pelle – classici, metropolitani.
Ma desidero in modo atroce quelli di gomma – non chiamateli rainboots in mia presenza, ve ne prego. Attendo con trepidazione che qualcuno li sdogani nelle vie del centro storico senese. Attendo di vedermeli sgambettare all’improvviso di fianco, così da poterli indossare anch’io.
Non sono una pioniera in fatto di abbigliamento. E farmi presente che sono almeno due anni che le galoche spopolano tra le celebrities di mezzo mondo, non è esattamente la trovata più geniale per indurmi a fregarmene del giudizio altrui. Semplicemente perché quel mondo non è il mio mondo. Io voglio vedere le galoche in piazza del Campo (giorni di Palio esclusi).