ALCUNE COSE BELLE CHE SONO ENTRATE A FAR PARTE DELLA MIA VITA

Volevo parlarvene da tempo ma per un motivo o per l’altro non mi sentivo mai in vena di farlo. Vuoi perché i cambi di stagione mi ammazzano, vuoi perché il mio livello di espansività aveva toccato i suoi minimi storici. Purtroppo mi capita spesso di scoraggiarmi e di chiedermi in tutta onestà cosa diamine ci faccio qua sopra, che senso abbia scrivere su un blog, soprattutto mi chiedo che senso possa avere tutto questo per una persona di indole introversa. Mi sto obbligando a farlo? In un certo senso, sì. La ragione ve l’ho spiegata un numero incalcolabile di volte. Sappiate in ogni caso che perfino all’apice della mia peggiore crisi di misantropia, io ci tengo a voi, Impavidi 114 Lettori della fulgida genia di WordPress – e anche a voi, ci tengo, cari 13 di Facebook che mi (non) seguite con ammirevole discrezione, e ci tengo perfino a voi, Visitatori Anonimi, siete i benvenuti.

Comunque.

Negli ultimi mesi si sono registrati svariati episodi di generosità a vantaggio della sottoscritta (era il mio compleanno, era Natale, era un mesiversario, era quel cazzo che vi pare, ogni occasione è buona per farmi un regalo – tranne che: a San Valentino e per la Festa della Donna, due ricorrenze che non sono in nessun modo contemplate dal mio calendario). Tre quarti delle cose belle che ho ricevuto me le ha regalate lui. Vi sembrerà bizzarro, ma c’è qualcuno che da quasi 5 anni mi ama.

 

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CUFFIE BOSE SOUNDLINK. Ecco, queste bellezze provengono appunto da lui. Non sapevo nemmeno di desiderarle finché non me le ha regalate. La caratteristica più impressionante di queste cuffie wireless è la funzione Noise Cancelling, cioè la loro capacità di isolamento acustico per un’esperienza di suono letteralmente immersiva. In pratica, le metti e improvvisamente ti ritrovi sott’acqua. Con una carica vanno avanti per settimane anche se sottoposte a un utilizzo intensivo, che non è poco. In più il design Bose mi piace un casino perché è terribilmente tecnico, sono fatte di nylon rinforzato con fibra di vetro e acciaio inossidabile, in una parola: sono infrangibili – con le Bose addosso mi sento una via di mezzo tra una cyber-mistica sorda al mondo e una discendente di Jodie Foster in Contact. Naturalmente, ho tralasciato l’aspetto più performante ma mi sembra talmente ovvio: la qualità del suono è a dir poco sbalorditiva, specialmente se valutata la fascia di prezzo. Come ho già detto altrove, in breve tempo sono diventate le mie più fedeli compagne di binge-watching. (Procedo un po’ a rilento, in realtà, ma lasciatemelo dire: la seconda stagione di X-Files spacca. Ormai non posso non annoverare questa serie tra le mie preferite di sempre, sta scalando la classifica in tempi record e attualmente si trova un mezzo gradino al di sotto di Lost, cioè vicinissima al Primo Posto. Rassicuratevi: non vi parlerò di X-Files ancora per molto, mi mancano solo ahem 8 stagioni).

CANDELA DICE KARTELL FRAGRANCES. Non ero a conoscenza di questa linea di candele profumate, quindi mi ha sorpreso moltissimo riceverla. Che dire? È bellissima, interpreta plasticamente l’annoso dilemma della quadratura del cerchio e ha una profumazione indefinibile e opulenta, estremamente incisiva. L’ho accesa tutte le sere per un certo periodo. Ma adesso che è rimasto solo il fondo mi dispiace consumarla del tutto, e quindi mi limito a contemplarla e ad annusarla da spenta. Esiste un termine specialistico per designare la Paura di Dimenticare? Amnesifobia? La necessità di ricordare TUTTO, di trattenere il ricordo di ogni singolo istante vissuto, è sicuramente uno dei moventi più tenaci e drammatici della mia vita diurna. È la ragione per cui mi ostino a conservare flaconi di profumo vecchissimi – esauriti ma mai fino all’ultima goccia – perché se li scapocchio mi riportano ancora alla mente il periodo in cui li indossavo (su, da Marilyn in poi, i profumi si indossano).

DANIEL WELLINGTON SHEFFIELD 36MM. Non so bene per quale ragione abbia sentito l’impulso di comprarmelo, forse perché era in superofferta su Amazon ByVip, o forse perché certi messaggi subliminali di Instagram e Pinterest vanno più a fondo di altri (nessuno uscirà indenne dal panopticon di Instagram). Non lo so. Il mistero si infittisce se consideriamo poi che ho comprato la versione con cornice in oro rosato. O-ro-ro-sa-to, capite? Mmh. Be’, comunque è elegantissimo, fin troppo, forse. È una specie di gioiello che in più ti dice l’ora anche se io in modo automatico guardo comunque sul telefono. Mettiamola così, è un incentivo di tutto rispetto per riattivare una gestualità ormai in disuso. Quella che consiste nel compiere una lieve torsione del polso per mettere in luce il quadrante e un paio di lancette meccaniche.

IPHONE 7. Regalo di compleanno dei miei evaso in differita. Mia madre, in particolare, da anni si cala ciclicamente nei panni della subdola tentatrice: Gioia, se lo vuoi, la mamma te lo compra. E io, ectoplasma irrorato all’improvviso da litri e litri di sangue, vacillavo per un secondo ma poi rispondevo Naaah, l’iPhone è roba da teenager smanettoni, poi costa troppo. La verità è che l’iPhone così come l’abbiamo conosciuto negli ultimi anni non mi ha mai detto un granché. Tutti quei soldi li avrei sborsati solo per il Dispositivo Tecnologico Perfetto e secondo i miei standard estetici e funzionali l’iPhone 5 era perfettibile, il 6 poteva quasi andare ma aveva ancora le profilature d’acciaio a contrasto. Quindi, nay. Nel frattempo tuttavia il mio amatissimo Samsung Galaxy sII Plus, dopo un tre anni di piena efficienza operativa (mai sottovalutare Android) cominciava a mostrare i primi segni di cedimento a livello di software, praticamente mi stava rantolando in mano. E siccome lo smartphone mi è indispensabile sul lavoro, ho iniziato a sentirmi in ansia ogni volta che ero di turno. Poi, un bel giorno, nel corso di uno dei miei tour perlustrativi da Unieuro/Euronics/Trony/Expert ecc. – credo di essermeli fatti tutti – in cerca di promozioni utili, ho cominciato ad occhieggiare con crescente insistenza l’iPhone 7, che se ne stava lì, sotto un’urna di cristallo come Biancaneve. Dopo ripetute ricerche online sono arrivata alla conclusione che avevo trovato la perfezione in forma di smartphone. E mi sono convinta che anche solo per il design valeva tutti quei cazzo di soldi. Rivedo la scena, io che con la testa ciondoloni mi tormento Non so, non so – e accanto a me i miei che esclamano Ma sì, ma sì, a parte il Momo sei la nostra unica figlia. A quel punto ho aperto a fessura un occhio, e quell’occhio brillava di una luce sinistra.

Eccolo qui, lo sto guardando proprio in questo momento. E niente, sembra fatto apposta per gratificare il mio apparato percettivo. E’ integralmente nero e quando dico integralmente nero intendo in ogni sua singola componente, e il case è opaco – ripeto opaco, è sottile, ergonomico e dannatamente solido. E’ il monolite di Kubrik. E’ l’oggetto più somigliante a un manufatto alieno che mi sia capitato di vedere in giro.

WHAT’S THE POINT?

Dunque, cominciamo col dire che sì, avevo deciso di togliermi di mezzo dalla blogosfera. Il processo di autorappresentazione mediatica, be’, mi crea qualche problema di ordine esistenziale (diosanto, sono vanitosa da far schifo e non lo sapevo!). E poi, capite, avevo nostalgia. Esatto, nostalgia del “mondo di ieri”, quando io in rete mica c’ero e vivevo sigillata in una capsula vitrea di solitudine e silenzio e inaccessibilità. Era bello. Non che oggi io sia una persona tanto diversa, resto un’ipoconnessa, una che sostanzialmente si fa i cazzi suoi senza documentarli in modo compulsivo sui social (social?). E tuttavia anche il solo fatto di avere un blog, per quanto ciclicamente abbandonato a se stesso, una pagina Facebook correlata, e ora, diciamo da circa una quindicina di giorni se non sbaglio, pure un profilo Instagram (che ovviamente sto già pensando di disattivare) mi crea grosse difficoltà, nonché un profondo disagio (imbarazzo).

Non so voi, ma io trovo francamente imbarazzante fare quello che fanno TUTTI.

È un mio problema da sempre.

Per un po’ ci provo, mi gioco la carta del conformismo, mi autoconvinco dell’importanza di una forma minima di adattamento sociale ecc. – ma poi, sul più bello, finisco sempre, sempre risucchiata in una spirale di dubbi e frustrazione. Come se mi sentissi disonesta con me stessa. Come se stessi tradendo qualcosa o qualcuno dentro di me.

Odio i social. Quel brusio felpato come di voci sovrapposte che ti avviluppa all’istante e rende fatuo e insostanziale e retorico qualunque ordine di discorso (vogliamo parlare di come Facebook rovina i libri belli?). Cazzo, è come quando entravo in un’aula universitaria e percepivo quell’assurdo parlottio nelle retrovie. Ho piantato l’università anche per questo, suppongo, per non dover mai più prestare orecchio al chiacchiericcio borioso, sguaiato o cospiratorio degli studenti. Odio gli studenti universitari. Odio le congreghe, le cricche, le associazioni culturali, qualsiasi tipo di assembramento umano. Scusate, nulla di personale, ma sono fatta così.

Odio i social, dicevo. Eppure ci ricasco di continuo. E mi odio per questo. A questo punto, farei prima ad ammettere di provare un odio indiscriminato per tutto e tutti.  Vi assicuro che non è così. Almeno non tutti i giorni, e non per tutte le ore del giorno.

(sto scrivendo un po’ a ca… so)

Un annetto fa mi è venuta l’idea di aprire un blog. L’ho fatto – per curiosità, noia, follia. Dopo anni di mutismo autoimposto e di invisibilità, mi ero decisa a esplorare le potenzialità dei nuovi mezzi di condivisione, non proprio con intenti antropologici, ma quasi.

Tutto sommato è stata un’istruttiva perdita di tempo. Nel senso, ho scoperto l’esistenza di molti blog interessanti nel loro genere. Solo che, vedete, io ho questo problema che non riesco ad essere la stessa cosa troppo a lungo. In più ho il viziaccio di disseminare indizi fuorvianti sul mio conto secondo modalità che rasentano la schizofrenia, ve ne sarete accorti. E insomma, non si può tenere un blog senza un minimo di coerenza, dico bene? La coerenza, l’adesione (chissà poi quanto sofferta) a una certa immagine di sé, articolata attraverso anni di post, è la forza di molti blog. La coerenza, voglio dire, è il requisito minimo. 

Bene, io non sono coerente (eh). Cioè, lo sono in modo quasi ottuso sulle cose che reputo importanti (l’amore per la letteratura, l’amore per lui) ma per quanto riguarda tutto il resto, rimango una cosetta molle sprimacciata da mani avventate e casuali. Sono facilmente plasmabile. Ci sono interi settori dell’esistenza con i quali non ho la minima confidenza. Su moda, trucchi e laifstail (tutte cose a cui non ho mai dedicato troppa attenzione) vi seguo a nastro con assoluta devozione. Mi sono divertita a ficcare il naso in campi di sapere a me del tutto estranei. Mi sono lasciata programmare. 

Però, in definitiva, boh. Son tutte cose che lasciano il tempo che trovano. Non producono significato nella mia vita. Mi distraggono. E finisco per amarleodiarle. 

Sono e non sono, barcollo in uno shifting perpetuo.

Che so, svariati mesi fa avevo pubblicato un post scialbissimo sulla mia borsa. Madò, a voce credo di non aver mai parlato in vita mia di borse! Forse è proprio questa leggerezza ad affascinarmi. Io che soffoco tutto sotto una coltre di pesantezza, io che mi sono tormentata per un decennio nell’impossibilità (ideologica? Morale? Metafisica?) di portare a termine le cose più banali (la patente? Manco quella ho voluto prendere). 

Forse sto solo descrivendo un quadro psicologico disturbato. 

O forse se sono ancora qui è perché in fondo mi piace raccontare versioni alternative di fatti troppo ordinari per essere raccontati fedelmente. O ancora: forse sono qui perché scrivere su un blog è un po’ come farsi una lunga chiacchierata tra amiche davanti a una fetta di torta ai mirtilli (posso immaginarlo, non ho mai avuto amiche con cui fare discorsi simili, con cui parlare di borse!).

E insomma, la conclusione è che sono ancora qui a scrivere robaccia, e questa cosa mi genera un sacco di paranoie astratte, e non so come dribblarle.

(comunque, sì, al lavoro tutto bene. Ecco, una blogger normale avrebbe parlato di questo)

(e comunque ci sono troppi aggettivi in questo post, io odio gli aggettivi)